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2052
Prove di sopravvivenza
di Claudio Strano
Problemi come il
cambiamento climatico e l'esaurimento delle risorse non hanno
trovato adeguata
risposta a causa della lentezza dei processi decisionali e di una
visione miope. Ora
dobbiamo imparare, e insegnare a figli e nipoti, ad adattarci
ala insostenibilità
del pianeta. Ce lo spiega Jorgen Randers, coautore del rapporto sui limiti
dello sviluppo (Club di Roma, 1972) e ora profeta dei nuovi scenari
°°°°°°°°
Non tutti ci saranno allora ecco come
si presenterà il mondo alla metà del secolo: con una popolazione in calo quale
conseguenza dell'inurbamento, causa di infertilità, dopo il picco di 8,1
miliardi di persone raggiunto nel 2040.
Con l'uso
dei combustibili fossili che avrà imboccato, da un decennio, la parabola
discendente in seguito alla frenata delle economie mature e all'accelerazione
delle
energie rinnovabili:
uno
sviluppo forte ma tardivo, il loro, perché avremo già accumulato + 2° C di
riscaldamento terrestre col pericolo di eventi estremi auto-rinforzantesi.
Sul piano
macroeconomico, la crescita della produttività scenderà a zero (fatti salvi i
paesi emergenti) e questo porterà un vantaggio insperato per l'impronta
ecologica
che ne risulterà contenuta. Continuerà il ristagno dei consumi, dopo il massimo
toccato nel 2045, anche perché la quota maggiore del Pil globale
prodotto
(2,2 rispetto ai livelli attuali) servirà proprio a riparare i danni provocati
dai cambiamenti meteorologici e dall'ondata di disordini sociali: i conflitti,
infatti,
s'inaspriranno,
favoriti dal clima instabile e dall'iniquità generata dalla maldistribuzione
delle risorse, in un mondo sempre più caotico che da una parte non avrà risolto
i problemi della fame (sebbene si potrà produrre tre volte la quantità di cibo
attuale) e della povertà (anche se da 2 dollari a testa al giorno si passerà a
4 dollari nei paesi sottosviluppati), dall'altra vedrà compiere grandi
passi in
avanti solo a Brasile, Russia, India, Sud Africa e altre dieci grandi economie
emergenti.
Questo e
molto altro succederà nel 2052 se, come sostiene Jorgen Randers, continuerà a
prevalere quella "short time human vision", quella visione di breve
periodo che allo stesso professore norvegese – tra i massimi esperti di sostenibilità,
questioni climatiche e strategie di scenario – pare al momento una tara
ineluttabile.
Al punto
da averlo convinto, due anni fa – e lo dice con un certo fastidio, durante la
presentazione del suo nuovo libro a Roma – a passare dai decaloghi delle cose
da fare per salvarci dalla insostenibilità globale, alle "ipotesi
ragionate" (guidate da modelli informatici) sul futuro prossibile. Anzi,
probabile. "Sì, perché l'uomo, trovandosi di fronte a problemi grandi ma
perlopiù risolvibili, come il cambiamento climatico, non ha saputo reagire
adeguatamente quando era
in tempo e
oggi il mondo è meno sostenibile di 40 anni fa.
L'umanità
si mantiene stabilmente in una condizione di sovrasfruttamento,
con il
doppio di emissioni annue di anidride carbonica rispetto a quella assorbita da
ocenani e foreste, e si vedono già i primi chiari segnali di una graduale
distruzione degli ecosistemi".
Democrazie
lente
È una
sconfitta personale, ammette il sessantottenne Randers, tra i coautori nel 1972
dello storico rapporto del Mit "I limiti dello sviluppo", con il
quale il Club di Roma mise per la prima volta in discussione il mito della
crescita
continua.
Ma è una sconfitta soprattutto per le democrazie lente, inadatte alla
dimensione planetaria dei problemi, e per il capitalismo della massimizzazione
dei profitti, oltre che per le istituzioni sovrannazionali che non hanno saputo
imprimere una correzione di rotta globale sufficiente.
La febbre
dell'umanità è più o meno quella registrata da Jorgen Randers, che era nella
capitale su invito del Wwf e del Club di Roma per presentare, a distanza di
40 anni,
il seguito di quella famosa ricerca del Mit, ora racchiuso nel suo nuovo volume
"2052.
Solo nel 2040 le rinnovabili avranno finalmente il sopravvento
Scenari
globali per i prossimi quarant'anni" (Edizioni Ambiente, a cura di
Gianfranco Bologna, con i contributi di una quarantina di studiosi
internazionali). Ci sono diverse previsioni di scenario concordanti con
"2052", ad esempio in "2030. La tempesta perfetta. Come
sopravvivere alla Grande Crisi" (Rizzoli editore) di Gianluca Comin e
Donato Speroni, che inclinano al peggio.
Qualche
speranza in più riesce ad infonderla l'economista e statistico Enrico
Giovannini, presidente dell'Istat (uno dei dieci saggi nominati da Napolitano)
ricordando
i benefici indiretti che avremo tutti, a partire dal 2015, dai nuovi indicatori
di benessere equo e sostenibile (Bes) "che vanno oltre il Pil, un
indicatore basato su falsi presupposti assunti per veri" che tanti danni
ha arrecato.
"I
nuovi indicatori saranno profondamente diversi – spiega Giovannini – e
segneranno un cambiamento epocale: per la prima volta sotto monitoraggio non ci
saranno solo i paesi in via di sviluppo, ma tutti". Il Bes s'inquadra nel dibattito internazionale
sul cosiddetto “superamento del Pil”, nella convinzione che i parametri per
misurare il progresso di una società non debbano essere solo
di
carattere economico, ma anche sociale e ambientale, nello spirito della
Conferenza di Rio.
La
malattia del pianeta tuttavia è giunta a uno stadio avanzato anche secondo
Giovannini come della maggioranza degli esperti che si occupano di questi temi.
"Ora
vi è in più il rischio che la crisi economica e politico-istituzionale che sta
attraversando l'italia ce li nasconda per un po', questi problemi, per poi
ripresentarci d'improvviso il conto". Un conto che "non solo le
future generazioni,
come
spesso si dice, ma le attuali stanno già pagando" sostiene il presidente
dell'Istat, il quale invoca "una nuova narrativa per fare passare il
messaggio alla gente pur senza terrorizzarla"
Convivere
col futuro
Ma che si
può dire e fare, arrivati a questo punto? "Prepararsi a vivere nel futuro
probabile e insieme lavorare duro per evitarlo", risponde Randers, abile a
mescolare l'amaro al provocatorio. Il professore non rinuncia a battersi ma è
costretto a riconoscere che "il problema oggi è di imparare a convivere
con imminenti disastri senza perdere la speranza". "Abbiamo già
superato una serie di limiti e, in alcuni casi, vedremo il collasso locale
prima del 2052, come la probabile perdita delle barriere coralline o del
tonno".
Randers se
la prende soprattutto con i limiti dei modelli di governance sul pianeta. Di
tutti tranne che di uno, quello cinese: "un governo forte centrale in
grado di prendere decisioni a lungo termine indipendenti dalla volontà
popolare, e seguite dal 97% della gente". Non a caso la Cina sarà la
superpotenza economica del futuro. Scalzerà gli Usa che sconteranno, ancor più
dell'Europa (dove spicca la Germania con la sua preveggenza sulle rinnovabili),
le difficoltà a gestire con efficacia le crisi. "Nemmeno l'uragano Katrina
è riuscito a risvegliarne le coscienze", denuncia Randers.
Che non
prevede "purtroppo", come si augurerebbe, un'unica
grande catastrofe ambientale planetaria, "la sola che spingerebbe i
governi ad intraprendere azioni più incisive".
Quarant'anni dopo
"I limiti dello sviluppo", anche Gianfranco Bologna, direttore
scientifico di Wwf Italia, deve ammettere che "il deficit ecologico
accumulato non è colmabile: è difficilissimo ripristinare un ecosistema".
Quel che servirebbe è "una nuova economia che mettesse al centro il
capitale naturale. L'ottimismo deve passare necessariamente attraverso la
voglia di cambiamento", chiosa.
E qui il cerchio si chiuderebbe, poiché si ritorna al problema di partenza: come evitare che l'interesse a breve termine tenga il mondo sotto scacco? Le resistenze sono state enormi fin qui e soltanto la miopia dei decisori, secondo Randers, può spiegarle. "Basterebbe infatti spostare il 2% del capitale economico e della forza lavoro su questi temi per risolvere il 'climatic change'. Se ciò si fosse fatto – si irrita il prof – l'investimento ci sarebbe costato un differimento solo di pochi mesi dell'attuale ricchezza". Ma siccome la speranza non deve mancare mai, ci soccorre un esempio di redditività nel breve applicato a un progetto di prospettiva. Si chiama "Ocean breeze", e a sostenerlo è Unicredit: 50 pale eoliche piantate nel mezzo del Mare del Nord dove il vento soffia forte e incessante, energia pulita che a regime sarà pari a un terzo di quella prodotta da una centrale nucleare, 400 mila famiglie tedesche già ora servite, 1.000 persone che lavorano alle torri più 5.000 nell'indotto.
E qui il cerchio si chiuderebbe, poiché si ritorna al problema di partenza: come evitare che l'interesse a breve termine tenga il mondo sotto scacco? Le resistenze sono state enormi fin qui e soltanto la miopia dei decisori, secondo Randers, può spiegarle. "Basterebbe infatti spostare il 2% del capitale economico e della forza lavoro su questi temi per risolvere il 'climatic change'. Se ciò si fosse fatto – si irrita il prof – l'investimento ci sarebbe costato un differimento solo di pochi mesi dell'attuale ricchezza". Ma siccome la speranza non deve mancare mai, ci soccorre un esempio di redditività nel breve applicato a un progetto di prospettiva. Si chiama "Ocean breeze", e a sostenerlo è Unicredit: 50 pale eoliche piantate nel mezzo del Mare del Nord dove il vento soffia forte e incessante, energia pulita che a regime sarà pari a un terzo di quella prodotta da una centrale nucleare, 400 mila famiglie tedesche già ora servite, 1.000 persone che lavorano alle torri più 5.000 nell'indotto.
Per un rendimento – fa
notare Paolo Fiorentino, vice direttore generale di Unicredit – tra il 7 e l'8%
sul fondo capitale".
E i delfini? Protetti anche loro dall'inquinamento acustico generato dalle pale eoliche. ●
E i delfini? Protetti anche loro dall'inquinamento acustico generato dalle pale eoliche. ●
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