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Saturday, June 15, 2013

2030 2040 2052 prove di sopravvivenza di claudio strano [imparare a convivere con imminenti disastri ...]


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2052

Prove di sopravvivenza 

di Claudio Strano

Problemi come il cambiamento climatico e l'esaurimento delle risorse non hanno
trovato adeguata risposta a causa della lentezza dei processi decisionali e di una
visione miope. Ora dobbiamo imparare, e insegnare a figli e nipoti, ad adattarci
ala insostenibilità del pianeta. Ce lo spiega Jorgen Randers, coautore del rapporto sui limiti dello sviluppo (Club di Roma, 1972) e ora profeta dei nuovi scenari

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         Non tutti ci saranno allora ecco come si presenterà il mondo alla metà del secolo: con una popolazione in calo quale conseguenza dell'inurbamento, causa di infertilità, dopo il picco di 8,1 miliardi di persone raggiunto nel 2040. 
Con l'uso dei combustibili fossili che avrà imboccato, da un decennio, la parabola discendente in seguito alla frenata delle economie mature e all'accelerazione
delle energie rinnovabili:
uno sviluppo forte ma tardivo, il loro, perché avremo già accumulato + 2° C di riscaldamento terrestre col pericolo di eventi estremi auto-rinforzantesi.
Sul piano macroeconomico, la crescita della produttività scenderà a zero (fatti salvi i paesi emergenti) e questo porterà un vantaggio insperato per l'impronta
ecologica che ne risulterà contenuta. Continuerà il ristagno dei consumi, dopo il massimo toccato nel 2045, anche perché la quota maggiore del Pil globale
prodotto (2,2 rispetto ai livelli attuali) servirà proprio a riparare i danni provocati dai cambiamenti meteorologici e dall'ondata di disordini sociali: i conflitti, infatti,
s'inaspriranno, favoriti dal clima instabile e dall'iniquità generata dalla maldistribuzione delle risorse, in un mondo sempre più caotico che da una parte non avrà risolto i problemi della fame (sebbene si potrà produrre tre volte la quantità di cibo attuale) e della povertà (anche se da 2 dollari a testa al giorno si passerà a 4 dollari nei paesi sottosviluppati), dall'altra vedrà compiere grandi
passi in avanti solo a Brasile, Russia, India, Sud Africa e altre dieci grandi economie emergenti.

Questo e molto altro succederà nel 2052 se, come sostiene Jorgen Randers, continuerà a prevalere quella "short time human vision", quella visione di breve periodo che allo stesso professore norvegese – tra i massimi esperti di sostenibilità, questioni climatiche e strategie di scenario – pare al momento una tara ineluttabile.

Al punto da averlo convinto, due anni fa – e lo dice con un certo fastidio, durante la presentazione del suo nuovo libro a Roma – a passare dai decaloghi delle cose da fare per salvarci dalla insostenibilità globale, alle "ipotesi ragionate" (guidate da modelli informatici) sul futuro prossibile. Anzi, probabile. "Sì, perché l'uomo, trovandosi di fronte a problemi grandi ma perlopiù risolvibili, come il cambiamento climatico, non ha saputo reagire adeguatamente quando era
in tempo e oggi il mondo è meno sostenibile di 40 anni fa. 
L'umanità si mantiene stabilmente in una condizione di sovrasfruttamento,
con il doppio di emissioni annue di anidride carbonica rispetto a quella assorbita da ocenani e foreste, e si vedono già i primi chiari segnali di una graduale distruzione degli ecosistemi".

Democrazie lente

È una sconfitta personale, ammette il sessantottenne Randers, tra i coautori nel 1972 dello storico rapporto del Mit "I limiti dello sviluppo", con il quale il Club di Roma mise per la prima volta in discussione il mito della crescita
continua. Ma è una sconfitta soprattutto per le democrazie lente, inadatte alla dimensione planetaria dei problemi, e per il capitalismo della massimizzazione dei profitti, oltre che per le istituzioni sovrannazionali che non hanno saputo imprimere una correzione di rotta globale sufficiente.
La febbre dell'umanità è più o meno quella registrata da Jorgen Randers, che era nella capitale su invito del Wwf e del Club di Roma per presentare, a distanza di
40 anni, il seguito di quella famosa ricerca del Mit, ora racchiuso nel suo nuovo volume "2052.

Solo nel 2040 le rinnovabili avranno finalmente il sopravvento
Scenari globali per i prossimi quarant'anni" (Edizioni Ambiente, a cura di Gianfranco Bologna, con i contributi di una quarantina di studiosi internazionali). Ci sono diverse previsioni di scenario concordanti con "2052", ad esempio in "2030. La tempesta perfetta. Come sopravvivere alla Grande Crisi" (Rizzoli editore) di Gianluca Comin e Donato Speroni, che inclinano al peggio.
Qualche speranza in più riesce ad infonderla l'economista e statistico Enrico Giovannini, presidente dell'Istat (uno dei dieci saggi nominati da Napolitano)
ricordando i benefici indiretti che avremo tutti, a partire dal 2015, dai nuovi indicatori di benessere equo e sostenibile (Bes) "che vanno oltre il Pil, un indicatore basato su falsi presupposti assunti per veri" che tanti danni ha arrecato.
"I nuovi indicatori saranno profondamente diversi – spiega Giovannini – e segneranno un cambiamento epocale: per la prima volta sotto monitoraggio non ci saranno solo i paesi in via di sviluppo, ma tutti". Il Bes s'inquadra nel dibattito internazionale sul cosiddetto “superamento del Pil”, nella convinzione che i parametri per misurare il progresso di una società non debbano essere solo
di carattere economico, ma anche sociale e ambientale, nello spirito della Conferenza di Rio.
La malattia del pianeta tuttavia è giunta a uno stadio avanzato anche secondo Giovannini come della maggioranza degli esperti che si occupano di questi temi.

"Ora vi è in più il rischio che la crisi economica e politico-istituzionale che sta attraversando l'italia ce li nasconda per un po', questi problemi, per poi ripresentarci d'improvviso il conto". Un conto che "non solo le future generazioni,
come spesso si dice, ma le attuali stanno già pagando" sostiene il presidente dell'Istat, il quale invoca "una nuova narrativa per fare passare il messaggio alla gente pur senza terrorizzarla"

Convivere col futuro

Ma che si può dire e fare, arrivati a questo punto? "Prepararsi a vivere nel futuro probabile e insieme lavorare duro per evitarlo", risponde Randers, abile a mescolare l'amaro al provocatorio. Il professore non rinuncia a battersi ma è costretto a riconoscere che "il problema oggi è di imparare a convivere con imminenti disastri senza perdere la speranza". "Abbiamo già superato una serie di limiti e, in alcuni casi, vedremo il collasso locale prima del 2052, come la probabile perdita delle barriere coralline o del tonno". 
Randers se la prende soprattutto con i limiti dei modelli di governance sul pianeta. Di tutti tranne che di uno, quello cinese: "un governo forte centrale in grado di prendere decisioni a lungo termine indipendenti dalla volontà popolare, e seguite dal 97% della gente". Non a caso la Cina sarà la superpotenza economica del futuro. Scalzerà gli Usa che sconteranno, ancor più dell'Europa (dove spicca la Germania con la sua preveggenza sulle rinnovabili), le difficoltà a gestire con efficacia le crisi. "Nemmeno l'uragano Katrina è riuscito a risvegliarne le coscienze", denuncia Randers. 


Che non prevede "purtroppo", come si augurerebbe, un'unica grande catastrofe ambientale planetaria, "la sola che spingerebbe i governi ad intraprendere azioni più incisive".
Quarant'anni dopo "I limiti dello sviluppo", anche Gianfranco Bologna, direttore scientifico di Wwf Italia, deve ammettere che "il deficit ecologico accumulato non è colmabile: è difficilissimo ripristinare un ecosistema". Quel che servirebbe è "una nuova economia che mettesse al centro il capitale naturale. L'ottimismo deve passare necessariamente attraverso la voglia di cambiamento", chiosa.
E qui il cerchio si chiuderebbe, poiché si ritorna al problema di partenza: come evitare che l'interesse a breve termine tenga il mondo sotto scacco? Le resistenze sono state enormi fin qui e soltanto la miopia dei decisori, secondo Randers, può spiegarle. "Basterebbe infatti spostare il 2% del capitale economico e della forza lavoro su questi temi per risolvere il 'climatic change'. Se ciò si fosse fatto – si irrita il prof – l'investimento ci sarebbe costato un differimento solo di pochi mesi dell'attuale ricchezza". Ma siccome la speranza non deve mancare mai, ci soccorre un esempio di redditività nel breve applicato a un progetto di prospettiva. Si chiama "Ocean breeze", e a sostenerlo è Unicredit: 50 pale eoliche piantate nel mezzo del Mare del Nord dove il vento soffia forte e incessante, energia pulita che a regime sarà pari a un terzo di quella prodotta da una centrale nucleare, 400 mila famiglie tedesche già ora servite, 1.000 persone che lavorano alle torri più 5.000 nell'indotto.
Per un rendimento – fa notare Paolo Fiorentino, vice direttore generale di Unicredit – tra il 7 e l'8% sul fondo capitale".
E i delfini? Protetti anche loro dall'inquinamento acustico generato dalle pale eoliche. ●


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