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Monday, November 25, 2013

II GuerraMondiale / "Sono molto triste di questa fetida ruina" (Gabriele D'Annunzio) - Delitto Matteotti, IL DELITTO SENZA MISTERO di Mussolini

http://www.slideshare.net/CristinaGalizia/seconda-guerra-mondiale-semplificata-cg?ref=http://arringo.wordpress.com/2013/12/20/la-seconda-guerra-mondiale-avvio-allo-studio-del-900_iiia/

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25 novembre 2013
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Oggi su #iltempoelastoria : "D'Annunzio, Mussolini, carissimi nemici" - In studio con Massimo Bernardini lo storico Francesco Perfetti. Su Rai3 alle 13.20 e su Rai Storia in replica alle 20.30 - « Mio caro Benito Mussolini, chi conduce un'impresa di fede e di ardimento, tra uomini incerti o impuri, deve sempre attendersi d'essere rinnegato e tradito "prima che il gallo canti per la seconda volta" [...]
Fiume d'Italia, 15 febbraio 1920 Gabriele D'Annunzio. »

Rai Storia @RaiStoria 25 11 2013 #iltempoelastoria torna stasera su @RaiStoria h20.30 con D'Annunzio,Mussolini,carissimi nemici: con il prof.Perfetti @MaxBernardini
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/03/03/un-delitto-senza-mistero

 UN DELITTO SENZA MISTERO

 L' assassinio del giovane deputato socialista Giacomo Matteotti non può certo iscriversi nella lista dei misteri politici italiani. Mai un delitto fu più chiaro di questo. Il gruppo di squadristi che il 10 giugno 1924 uccise, forse pochi minuti dopo il rapimento, Matteotti, fu ben presto identificato e due anni dopo addirittura processato alla corte d' assise di Chieti. Nei libri di storia si racconta il senso di sgomento e di ribellione di moltissimi italiani quando si ebbe la notizia della scomparsa di Matteotti e poi, con la scoperta del suo corpo, la certezza del delitto. In quei giorni si credette nel crollo imminente del governo presieduto da Mussolini, appunto perché si capì che, anche senza prove concrete, il delitto non poteva non attribuirsi ai fascisti, alla svolta che aveva avuto il sistema politico italiano e anche al silenzio con il quale la vecchia classe dirigente liberale aveva fino allora assistito agli atti del nuovo potere e all' indifferenza delle più alte cariche dello Stato di fronte al degrado della vita pubblica. Matteotti non era infatti un anonimo parlamentare; era il segretario del Partito socialista riformista ed uno dei pochi deputati dell' opposizione ad avere denunciato, con dati alla mano, alla Camera il clima e gli episodi di intimidazione e di violenza che avevano segnato e alterato la consultazione elettorale del 6 aprile. Si disse che quel discorso alla Camera, continuamente interrotto dai deputati fascisti e presente un rabbuiato Mussolini, decretò la sua fine, può darsi. In verità Matteotti era più pericoloso di un discorso. Egli era l' uomo politico che in quel momento stava per aggregare, con chiarezza di idee e con molta determinazione, una vera opposizione al movimento e al governo dei fascisti. Meno generico e moralistico dei comunisti o dei liberal-democratici alla Amendola, Matteotti aveva in quei mesi avvertito come un indebolimento della tensione politica anche all' interno del suo partito, perfino da parte di Turati (che criticava per una certa benevolenza verso il movimento dannunziano) e aveva citato episodi di un "grossolano slittamento a destra" di alcuni compagni dirigenti. Dunque una sua eliminazione non poteva che essere un segnale politico preciso di un confronto politico altrettanto netto. Matteotti versus Mussolini, quindi Mussolini versus Matteotti. Ma Mussolini fu personalmente responsabile della morte del suo avversario? Se ne parla in una recente ricerca storica. A settanta anni di distanza pare che esistano prove in merito. Sono prove decisive? Quando ancora il mistero della scomparsa di Matteotti non era svelato, lo stesso D' Annunzio, padre nobile di Mussolini, in una lettera del 23 luglio 1924 ad un amico così commentava la crisi evidente del fascismo: "Sono molto triste di questa fetida ruina". E di questa ruina (che poi non ci fu) certamente Mussolini era politicamente il maggiore responsabile. Ma Mussolini replicherà a D' Annunzio nel settembre in una lettera scritta con sicurezza angosciata e proterva: "Tu capisci che io non mollo, nemmeno a costo del sangue, quando si tratti di stabilire se io sia o no il mandante in assassinio! Tre mesi fa mi hanno gettato un cadavere tra i piedi: era pesante: mi ha fatto barcollare e soffrire". Tuttavia, il vero dramma politico per l' Italia non fu solo la morte del coraggioso Matteotti, quanto il fatto che i suoi confessi assassini fossero, nel 1926, condannati a pene risibili. Con questo atto di giustizia ingiusta si completava la parabola dello Stato liberale italiano.
Di LUCIO VILLARI 03 marzo 1994 34 sez. CULTURA C××××××××××××××××××××××××××××××××××××××××××××× http://www.sissco.it/index.php?id=1291&tx_wfqbe_pi1%5Bidrassegna%5D=4928

Società italiana per lo studio della storia contemporanea

 Corriere della Sera 22/08/2005

Caro d’Annunzio, educate il Duce A torto negletta, la profonda intesa tra Margherita Sarfatti e Gabriele d’Annunzio è testimoniata da 23 lettere e 13 telegrammi inediti (1918-1936), custoditi negli Archivi del Vittoriale: «Signore e Maestro», «Mio nobile Amico», «Comandante e Amico grande»… Il sangue e le rose che macchiano di rosso, nel gennaio 1918, l’annuncio della morte in guerra del figlio diciassettenne («ricordate le fragranti rose rosse che Voi mi offriste a Venezia, alla prima rappresentazione della Nave ? Non sapevo di doverle irrorare di tutto il mio sangue»), ne rivelano anche nel lutto l’intrigante civetteria. Sarà questo il contrassegno della sola donna di rilievo politico nel regime fascista, eminenza grigia e amante, dal 1912 al 1932, di Mussolini, tanto maschilista quanto disposto a lasciarsi manovrare dal sesso debole. E proprio su Mussolini, in procinto di recarsi a Gardone nel maggio 1925, non appena superata la crisi drammatica in seguito all’assassinio di Matteotti, si appunta la lettera circospetta con la quale Margherita prepara l’incontro tra i due. D’Annunzio ha parlato di «fetida ruina»; quindi si è chiuso in un ermetico silenzio tutt’altro che fiancheggiatore. Invece, il dialogo tra il vate e il duce deve continuare. Attentissima alla logistica, capace di trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto, a Parigi o a New York, a Londra o a Berlino, sembra che Margherita abbia raggiunto con intenzione Ferrara. Prende la penna in mano nella «città del silenzio» cantata dal poeta delle Laudi : «Caro e illustre Maestro, "o deserta bellezza di Ferrara", da ieri queste pietre mi ripetono questo suono. La musica del verso rinchiude la musica della città che venni a risalutare dopo molti anni». Ha così buon gioco la perorazione in cui l’intimità con Mussolini viene ostentata: «Poco dopo che il Presidente fu ammalato, Ella gli scrisse che bisognava vigilare e curare la "carcassa", perché non contrastasse, ammalandosi più gravemente, alla volontà dello spirito alacre. Quelle parole, dette da un indomito e intrepido amatore del rischio, poterono molto sul Presidente; per avventura, più che un volume di consigli venuti da altre persone che forse in cuor suo accusa di "suocerismo sedentario". Io sono felice del prossimo incontro, che auguravo da molto tempo, e del riposo che almeno, dopo tanto tempo, quest’uomo affaticato si concederà in riva al più memore dei laghi, ospite del poeta eroico. Vuole Ella permettermi, Comandante e illustre Maestro, che io Le rivolga la timida preghiera confidenziale di insistere con il Presidente nel Suo ammonimento, e di obbligarlo a non trasgredire i consigli della Sua vigile saggezza, nel tempo che egli sarà ospite del Vittoriale?» (22 maggio 1925). Quando Margherita trama l’assimilazione di d’Annunzio al fascismo, dietro le quinte e sotto le mentite spoglie della sollecitudine affettuosa per lo stato di salute del Presidente (gli attacchi di ulcera), ha da poco licenziato Dux , biografia mussoliniana suggeritale da Prezzolini. Tradotta in diciotto lingue, tante quante le edizioni italiane, il libro è un capolavoro tempestivo di retorica promozionale, che oggi ha molto da suggerire sulle ricorrenti manovre intorno ai vertici del potere. In stampa giusto all’indomani della dittatura, Dux ha di mira la popolarità del capo a ogni costo. A costo, soprattutto, delle gaffes di Benito che l’amante ha a lungo catechizzato, costringendolo a imparare le lingue (lei parla e scrive correttamente francese, inglese e tedesco), a suonare il violino, a pilotare l’aereo, a indossare tight e bombetta e a smetterla finalmente con le imprecazioni in romagnolo. Ma appunto mentre il pigmalione in gonnella insegna al rude e manesco proletario il bon-ton dei salotti, ha l’acume di comprendere che il successo del demagogo va giocato sulle origini basse e i modi bruschi che fanno davvero la differenza rispetto a tutto ciò che l’ha preceduto e in particolare alla rammollita classe politica borghese. Valga dunque d’Annunzio, poeta celebrato anche Oltralpe, a compensare raffinatezza e cultura che difettano in Mussolini. Il quale resta pertanto libero, nelle pagine di Margherita, di comparire come il simpatico grossier che quando il re lo incarica di formare il governo dopo la Marcia su Roma mormora fra i denti, rivolto al fratello Arnaldo: «Ag fees ba!» («Ci fosse babbo!»). Si ha persino il sospetto che l’astuta biografa, le gaffe s, arrivi addirittura a inventarle! Non era comunque necessario mettere in bocca al presidente, di aneddoto in aneddoto, l’esclamazione, «con una smorfia di disprezzo», dinanzi agli arazzi del Vaticano: «Stoffa, via, dopo tutto; stracci!». Oppure, sempre in visita al Vaticano, battute da vero stupidario: «Quante stanze, che vastità, come sapevano costruire!», critico tuttavia nei confronti dell’«inguardabile» (sic!) affrescatore, che non teme di censurare: «Bello, bello Raffaello; bellissimo e vuoto». Dura sentenza di finto «primitivo», non per nulla subito incalzata da quest’altra: «In fondo, vedete, io sono un enorme barbaro, insensibile alla bellezza». Poco male, visto che «domina una nazione colui che ha le qualità e i difetti opposti all’indole nazionale». Aveva ragione? Lei, Margherita Sarfatti, colta giornalista e tuttologa, plenipotenziaria del post-futurismo, ha dominato per almeno un trentennio le nostre vicende artistiche, lanciando Boccioni; tenendo poi a battesimo, nel 1922, il gruppo di «Novecento» (Sironi, Bucci, Funi, Dudreville, Malerba, Marussig, Oppi), destreggiandosi fra mostre, esposizioni, biennali e triennali, scuola romana, metafisici, razionalisti: insomma fra pittori, scultori e architetti oltremodo litigiosi. Negli anni del tramonto, d’Annunzio doveva del resto pregiare l’energico attivismo di Margherita. Nel cruciale 1922, l’esperta aviatrice vorrebbe affiancarlo nel raid su Tokio: «prendetemi con voi, a bordo di uno dei vostri apparecchi!... Sono forte, sono rotta agli sports. Ho già volato a 4.300 metri d’altezza (record d’altezza con passeggero femminile). Vi prometto obbedienza assoluta e assoluta segretezza». Favorevole all’emancipazione, il «comandante» ha concesso il voto alle donne fiumane ed è intimo di numerose amazzoni intraprendenti, firmatarie di manifesti femministi e taluna - Romaine Brooks, Ida Rubinstein o Nathalie Barney - lesbica dichiarata. Certo poi non ignora la relazione affettuosa a oltranza (si insinua) dell’amante del duce con la Duse, alla quale procura l’ultima tournée americana e in seguito i funerali di Stato con la tomba di Asolo. Peraltro, il vate non condivide con lei la pronuncia di «camerata», già in voga a Fiume tra gli «arditi», ennesima dicitura che i fascisti gli sottraggono per arrogarsi l’eredità esclusiva della guerra e al tempo stesso dissociarsi dal «compagno» di marca socialista. È la madre dolorosa a imporre il nuovo appellativo sin dal 1918, nel contesto sacrale del dono del figlio alla patria: «Il Vostro piccolo camerata è divenuto con la morte il mio Capo e il mio anziano». Eluso il sottile gioco di specchi, per d’Annunzio Mussolini resterà polemicamente il «compagno». Alle soglie degli anni Trenta, dopo aver combattuto con Margherita alcune aspre battaglie in difesa del nostro patrimonio urbanistico (Venezia, Firenze, Vicenza) minacciato dalla speculazione edilizia, non sbaglierà nell’allineare l’ormai vieille maîtresse alla famiglia del duce: sia a Edda che a Margherita dona tessuti di seta dipinti di suo pugno perché ne ricavino, come faranno entrambe, un abito d’eccezione. Angelo Bitti

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